Con l’enciclica Gaudete et exultate, papa Francesco ci ha ricordato che il cammino verso la santità è vivere nell’ordinario lo straordinario. Il nostro conterraneo don Francesco Mottola non fece altro che questo. Nato a Tropea nel 1901, entrato in seminario all’età di 11 anni, venne ordinato sacerdote il 5 aprile 1924. Già da seminarista coltivò nel suo cuore l’ideale di che tipo di sacerdote doveva essere: consacrandosi al cuore di Gesù e vivendo conformandosi a Lui. Al Seminario Regionale di Catanzaro, assieme ad altri suoi compagni tra cui Gerardo Ruffa di Parghelia, fondò l’ “Associazione”, dei “piccoli oblati del Sacro Cuore”, il cui fine era quello di una totale oblazione a Gesù. Questo ideale lo accompagnò per tutta la vita, come pure il desiderio profondo di farsi santo che emerge dai suoi scritti. Pertanto, alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale descriveva il momento dell’ordinazione come “il più bello della sua vita … Verrò all’altare con la corona di spine, ma con il cuore pieno di gioia”. Don Mottola visse il suo ministero sacerdotale nell’obbedienza e fedeltà al compito affidatogli. Fu incaricato di svolgere il ministero di penitenziere della cattedrale e padre spirituale nel seminario minore. Questi servizi li svolse con cura e con amore, al punto che venne considerato il “martire del confessionale” per le sue giornate trascorse ad amministrare il sacramento della penitenza. Proprio nello svolgere il ministero di penitenziere lo conobbe la signorina Irma, che fu la prima discepola di don Mottola. Fondò l’Istituto secolare delle oblate, le quali vennero, per volere suo, chiamate le “carmelitane della strada”, perché avevano come compito quello di soccorrere i bisognosi di Tropea e dintorni. Questa sua propensione verso i più disagiati, don Mottola la coltivò sin dai tempi del seminario. Secondo lui, l’ideale oblato consisteva nell’essere totalmente di Dio e andare incontro ai più bisognosi che chiamava “li nuju du mundu”. Alle oblate ripeteva sempre che verso i poveri bisogna accostarsi con Carità e considerare che dove c’è una persona che soffre lì è presente Cristo. La spiritualità mottoliana è profondamente eucaristica che non si ferma soltanto alla preghiera, ma da essa sfocia nell’azione, perché nei sofferenti don Mottola vedeva la presenza eucaristica di Cristo. Per tale motivo egli volle a tutti i costi costruire la Casa della Carità, con l’intento di accogliere all’interno di essa tutte le persone che abitavano nei tuguri, senza nulla e donare loro la dignità che spettava loro. La prima Casa della Carità sorse alla marina di Tropea, ma poi con l’aiuto della Provvidenza, a cui credeva molto ne riuscì a costruire altre sia a Tropea, come a Limbadi e Vibo, le quali accoglievano rispettivamente bambine, anziani e handicappati. Alle oblate ricordava sempre che loro dovevano essere come lampade che non si spengono mai e che ardono sempre di Carità. Don Mottola è ricordato per essere stato il sacerdote della Carità, ma egli fu anche un sacerdote profondo e rispettoso verso tutti: vescovi, sacerdoti, seminaristi e laici. Fondò anche una rivista, tutt’ora in pubblicazione, Parva favilla. Dai suoi scritti traspaiono una spiccata preparazione intellettuale e l’amore per la sua terra di Calabria. La sua vita conobbe varie fasi di sofferenza, a partire dalla morte della madre in giovane età, a quella del fratello, fino ad arrivare alla emiparesi che lo paralizzò muscolarmente, facendogli perdere anche l’uso della parola per un po’ di tempo. Nonostante fosse provato dalla malattia egli portò avanti il suo apostolato configurandosi a Cristo crocifisso, dedicandosi alla preghiera e all’opera di carità. Molto sentita e forte in lui fu, anche, la devozione alla Vergine Maria. La vita di don Mottola si può riassumere in una donazione totale alla volontà di Dio e ai fratelli, incarnando in maniera perfetta le beatitudini, divenendo un modello di sacerdote da imitare, specie nel nostro mondo ormai secolarizzato. Egli, infatti, portò a tutti l’immagine di Cristo che sta con gli ultimi e che non rifiuta nessuno. La sua vita terrena si concluse il 29 giugno 1969 e si può esprimere in questa frase che lui stesso pronunciò, con la quale sanciva il suo totale abbandono a Dio: “Eccomi…eccomi tutto”. Il 17 dicembre 2007, Benedetto XVI ne riconobbe le virtù eroiche.
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